Paolo, 14 anni: il silenzio che accusa tutti
- Daniele Russo

- Sep 17
- 2 min read

Paolo non tornerà più a scuola. Non sentirà più la campanella, non porterà più lo zaino sulle spalle.
Quattordici anni: un’età in cui si dovrebbe sognare, scoprire il mondo, ridere con gli amici, provare la timidezza dei primi amori. E invece Paolo ha conosciuto l’insulto, lo scherno, l’etichetta crudele che ti entra nella pelle e non va più via.
“Paoletta”, “femminuccia”, “Nino D’Angelo”: soprannomi che fanno ridere i bulli, ma che feriscono come lame invisibili.
Il bullismo non è mai un gioco.
È un assassino lento, che lavora nell’ombra. Non sporca le mani di sangue, ma lascia lividi nell’anima.
Paolo era un ragazzo puro, cristallino – così lo descrive la madre – e proprio per questo vulnerabile. E noi non abbiamo saputo proteggerlo.
Il peso del silenzio
Quando un ragazzo di quattordici anni decide di togliersi la vita, non muore solo lui. Muore un pezzo di comunità. Muore la fiducia nelle istituzioni, nella scuola, negli adulti che avrebbero dovuto vegliare. Ogni volta che un insulto resta impunito, che un soprannome cattivo diventa normale, che un insegnante o un genitore minimizza con un “sono ragazzi”, il bullismo cresce.
Il silenzio intorno a Paolo accusa tutti: compagni, docenti, genitori, cittadini. Non possiamo dire “non lo sapevamo”.
I segni c’erano. C’erano da anni.
Una società che deve scegliere
Dopo Paolo ci saranno altri ragazzi, se non impariamo.
Il bullismo non si ferma con slogan o giornate della memoria. Si ferma con responsabilità, coraggio, educazione.Significa non chiudere gli occhi davanti a un sopruso.
Significa insegnare ai figli a chiedere scusa, a riconoscere la dignità dell’altro, a sentire la vergogna del male fatto.Significa che la scuola non può essere un’aula dove si fanno solo lezioni, ma un luogo di vita, protezione e cura.
Il dono che non abbiamo saputo custodire
Paolo era un dono, e non lo hanno custodito. Il fratello lo ha gridato, il padre e la madre lo hanno pianto, persino il cantante Nino D’Angelo ha chiesto perdono pubblicamente perché il suo nome, usato come insulto, è diventato un macigno.
Ma i gesti tardivi non bastano a riportarlo indietro.
L’unico modo per onorare Paolo è fare in modo che nessun altro debba stringere tra le mani una corda invece che un futuro. Che ogni bambino, ogni adolescente, possa sentirsi al sicuro nel posto più fragile e decisivo della vita: la scuola.
Perché questo articolo non è solo per Paolo
Questo articolo non è solo un ricordo.
È un atto di accusa. È un invito a scuotere le coscienze.
Se anche un solo genitore, un solo insegnante, un solo compagno leggendo queste righe deciderà di fermarsi, ascoltare, intervenire, allora Paolo non sarà morto invano.
Non lasciamo che il suo nome diventi solo una statistica.
Paolo è il nostro specchio.
E ci chiede: “Cosa farete voi, adesso?”





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