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Il Male: Anatomia di un Vuoto Umano

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Il Male non viene da fuori. Non è un demone, non è il diavolo, non è una forza che irrompe per caso nella vita degli uomini. Il Male è umano. È ciò che accade quando uno sguardo si spegne, quando un volto smette di essere volto e diventa rumore, quando l’altro non è più un essere vivente ma un ostacolo, una minaccia, una cosa.

Accade ogni giorno.Nelle guerre, dove i corpi diventano numeri. Nei femminicidi, dove l’amore si deforma in possesso. Nelle strade delle nostre città, dove la rabbia si traveste da giustizia e la violenza diventa linguaggio.Accade nelle famiglie dove non si parla più, nei social dove ci si accanisce per esistere, nei rapporti dove la parola “tu” non significa più niente.

Il Male non è un’eccezione. È la nostra incapacità di sentire.


Palermo in questi giorni lo mostra come in uno specchio spietato. L’omicidio di Paolo non è solo una tragedia, è una diagnosi collettiva: un sintomo della città e dell’uomo. Qui il Male non ha quartieri. È nei vicoli dove i ragazzi crescono tra rabbia e silenzio, e nei salotti dove l’indifferenza è educazione. È nella mancanza di sguardo che accomuna il criminale e l’uomo comune, la periferia e il centro, la povertà e il privilegio.


Il Male non ha un volto solo — ha mille volti, e a volte è anche il nostro.

La Bibbia lo aveva già intuito. Caino non uccide per odio, ma per umiliazione. Non sopporta di non essere visto, di non essere scelto. Il primo assassino non è un mostro, è un uomo ferito dall’assenza di riconoscimento. Da quella ferita nasce tutta la genealogia della violenza: da allora l’uomo uccide perché non sa più essere guardato.

Anche la Grecia lo sapeva. Medea non uccide i figli per crudeltà, ma per disperazione. Perché nessuno la vede più come donna, come madre, come essere umano. E quando la psiche viene cancellata, l’atto violento diventa un linguaggio estremo, l’ultimo modo per dire: esisto ancora.

Ogni guerra, ogni femminicidio, ogni omicidio giovanile nasce da questo stesso corto circuito: la perdita di sé nello sguardo dell’altro. Il Male non esplode per odio — esplode per vuoto.


Attualmente seguo un ragazzo di ventun anni che, una notte, ha avuto l’immagine improvvisa di uccidere la sua ragazza. Non è un potenziale assassino. È un ragazzo fragile, spaventato dalla propria aggressività, sconvolto dall’immagine del male che, per un istante, si è riflessa dentro di lui.I n quell’immagine c’è tutto: il conflitto tra impulso e colpa, tra desiderio e distruzione, tra l’angoscia e la paura di sé.Chi lo pensa e chi lo fa sono due facce della stessa medaglia. Lui è la prima.L’altro — quello che incontrerò a breve, in una consulenza tecnica di parte su un condannato per omicidio — è la seconda.

Nel primo c’è la possibilità, nel secondo la realtà. Ma entrambi parlano dello stesso vuoto: un’infanzia senza carezze, una casa dove la parola non bastava, un amore mai ricevuto o forse mal capito.Nessuno nasce assassino. Si diventa tali quando la mente non trova più la voce.

Eppure oggi il Male ci attrae. Lo consumiamo come intrattenimento, lo eleggiamo a spettacolo.Le serie televisive ne hanno fatto estetica: i serial killer sono diventati protagonisti raffinati, lucidi, intelligenti, quasi ammirabili. Li guardiamo perché rappresentano ciò che non possiamo essere — liberi dal limite, liberi dalla colpa. Ma quella libertà è solo illusione. Dietro ogni assassino non c’è forza: c’è implosione. Non c’è potere: c’è disperazione. Il Male non è fascino. È anestesia.

Nelle mie valutazioni psicodiagnostiche e nelle consulenze forensi, la violenza appare sempre con la stessa struttura: un trauma primario, una mancanza originaria, una ferita che non ha mai trovato voce. Il gesto violento è un linguaggio primitivo, un urlo che il mondo non ha saputo ascoltare. È la psiche che parla quando non riesce più a pensare.

Il Male non è il contrario del bene: è la morte della relazione. È l’attimo esatto in cui l’altro scompare come essere umano e diventa oggetto. E quando l’altro muore dentro di noi, moriamo anche noi.

Ciò che mi guida, come psicologo e come uomo, non è la pretesa di salvare o di assolvere.È il dovere di capire. Capire dove si spezza il filo tra emozione e coscienza, tra colpa e responsabilità. Capire perché alcuni pensieri restano pensieri e altri diventano sangue. La psicologia non redime, ma può fare una cosa essenziale: nominare l’innominabile. E nel farlo, restituire alla mente umana il suo specchio più vero.

Il Male non è fuori. È dentro. È la nostra ombra. E solo chi ha il coraggio di guardarla negli occhi — senza moralismi, senza pietà, senza distogliere lo sguardo — può ancora restare umano.

Daniele Russo

 
 
 

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dott. Daniele Russo, Psicologo Clinico regolarmente iscritto

all’Ordine degli Psicologi della Regione Siciliana (n. 3685 sez. A - 07.06.2006)

assicurato con polizza RC professionale AUPI (n. 2020/03/2425586)

Tipo soggetto: Ditta Individuale

Tipo attività: 869030 – Attività svolta da Psicologi

Indirizzo: Largo Montalto, 5, Palermo (PA)

Telefono: 349.81.82.809

Studio: 

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