Ringraziamenti e gratitudine
Vorrei esprimere la mia gratitudine più sincera a tutte le donne che ho avuto l’onore di incontrare nel mio cammino professionale.
Donne ferite, coraggiose, spezzate, arrabbiate, mute, esplosive.
Donne che sono entrate in silenzio e che avevano imparato a sopravvivere sorridendo e che chiedevano “sto esagerando?” mentre raccontavano una vita intera fatta di soprusi.
Donne che si sentivano pazze, sbagliate, sole.
Donne che credevano di aver perso tutto e invece dentro avevano un intero mondo da riscrivere.
Sono state loro le mie vere maestre.
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Donne che mi hanno insegnato più di quanto qualunque manuale specialistico possa contenere.
Mi hanno insegnato la grammatica del non detto, la mappa invisibile del dolore taciuto, l’alfabeto dei corpi che trattengono.
Mi hanno fatto entrare in un mondo fatto di silenzi antichi, di ferite trasmesse di madre in figlia, di parole che mancavano e di corpi che gridavano.
Attraverso loro ho imparato il rispetto, la misura, l’ascolto profondo.
E ogni volta che una paziente ha trovato la propria voce, io ho imparato ad ascoltare meglio la mia.
Attraverso loro ho imparato che ascoltare una donna significa camminare scalzi nella sua storia.
E farlo con rispetto, presenza, responsabilità
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Ma il mio grazie più profondo va a mia madre.
Mia madre, nata nel 1938.
Una donna che ha attraversato il Novecento con una forza silenziosa e una determinazione fuori dal tempo.
Nata in un contesto rigido, in una Sicilia ancora ancorata alle sue regole patriarcali, lei ha osato.
Era trasgressiva, per la sua epoca.
Viveva in una provincia in cui le donne dovevano stare al loro posto, ma lei ha scelto Palermo.
Ha sfidato le aspettative fuggendo via ed è andata a vivere a Palermo quando “non si faceva”, ha detto “no” quando non era permesso.
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È stata tra le prime donne in città ad avere la patente, quando guidare non era solo un atto pratico, ma una dichiarazione di guerra per la libertà femminile.
Una donna che mi ha insegnato tutto della complessità femminile senza usare parole, solo vivendo.
Ha sempre vissuto con dignità battagliando con le rinunce e i rinvii alle quali una donna per definizione deve sottostare.
E’ una donna affamata di vita, piena di intelligenza intuitiva, di ironia, di forza.
Aveva sogni che non ha mai potuto pronunciare e desideri che ha dovuto spegnere da sola.
Eppure ha anche sofferto, profondamente, come molte donne del suo tempo: ha taciuto, ha tenuto insieme pezzi, ha curato senza essere curata.
È stata – senza volerlo – il mio primo laboratorio clinico emotivo, il mio primo specchio, la prima donna che ho tentato di comprendere.
Eppure, come tante della sua generazione, ha pagato il prezzo del silenzio, della sottomissione, della solitudine.
L’ho vista curare tutti, senza mai essere curata.
L’ho vista asciugare le sue lacrime da sola, lontano dagli sguardi.
L’ho vista resistere, cucinare e pulire seppur stanca, amare, contenere, crollare e rialzarsi, senza chiedere mai nulla.
Lei mi ha insegnato che ogni donna ha una battaglia invisibile che contrasta quotidianamente con se stessa.
Grazie a mia mamma so che ogni paziente donna porta con sé non solo la propria storia, ma quella di sua madre e di sua nonna e di tutte le donne che l’hanno preceduta.
E forse, in fondo, io sono diventato psicologo proprio per lei.
Per quella parte di lei che nessuno ha mai saputo vedere.
Perché se oggi riesco a contenere le lacrime di chi si siede davanti a me, è perché ho imparato a contenere le sue.
È a lei, e a tutte le donne come lei, che dedico il mio lavoro.
E' a lei, a tutte le donne forti come lei e alle giovani donne della generazione attuale, così perse tra l'imposizione di una mercificazione dei loro corpi, relazioni affettive sterili e la paura di essere addirittura uccise se esprimono il loro dissenso che dedico questo sito.
E ogni volta che una paziente trova la forza di dire “no”, o di dire “basta”, o di dire “voglio vivere diversamente”... so che, in qualche modo, anche mia madre è lì con me, viva nella mia mente, nella mia postura, nel modo in cui accolgo quella storia.
Mi basta pensarla, per ritrovare il senso di quello che faccio.
E lei lo sa.
Ogni volta che gli parlo del mio lavoro, lei ne è fiera perché riconosce che la mia cura è la continuazione del suo coraggio.
Perché ho preso il suo dolore, le sue rinunce, il suo silenzio e li ho trasformati in un gesto quotidiano di ascolto, di presenza, di giustizia per le donne.
È fiera perché in ogni paziente donna che si rialza, lei riconosce se stessa finalmente libera.