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Il mio approccio professionale: ðŸŽ
Uno sguardo sistemico e umano alla complessità dell’esistenza femminile​​
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Tantissime Donne nel mio ambito hanno contribuito a stabilire che la diagnosi è un’arte tanto quanto una scienza, fatta di precisione, sensibilità e acume clinico. Una di queste figure indimenticabili è Mara Selvini Palazzoli. <<Ricordo una frase che racchiude tutta la complessità del mestiere clinico: a chi le chiedeva come riuscisse a cogliere con tale immediatezza il cuore del problema, rispondeva con disarmante semplicità: “Lo sento di pancia.>> (Gigi Cortesi, https://gigicortesi.wordpress.com/tag/mara-selvini-palazzoli/)
Una risposta che dice molto sul rigore, ma anche sull'intuito e sull'ascolto profondo che la clinica richiede.
E proprio Mara — insieme a Boscolo, Cecchin e Prata — ci ha lasciato una delle metafore più potenti sul ruolo del terapeuta:
“Inizialmente… il terapeuta opera non solo come attore ma anche come regista.”
(Selvini Palazzoli, Boscolo, Cecchin & Prata, 1975)
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Questa immagine restituisce con straordinaria lucidità la postura metodologica: il clinico non recita un copione né si limita a reagire agli stimoli, ma costruisce con consapevolezza l’intero spazio di cura. Dirige la scena emotiva, promuove esperienze trasformative, guida i processi relazionali con il rigore di chi sa dove andare e con la delicatezza di chi ascolta ogni sfumatura.
E se il terapeuta è un regista, allora vale anche il monito di Federico Fellini:
“Diventare regista è veramente duro. […] Devi avere un entusiasmo smisurato per questo lavoro.”
Come Fellini in platea o in pista, anche il clinico — ogni giorno — deve risvegliarsi con quello stesso entusiasmo smisurato: il desiderio profondo di dare forma al dolore, di tessere senso dove tutto sembra frammentato, di accompagnare l’altro in un viaggio che non è mai standardizzato, mai automatico, mai replicabile.
Occorre riuscire a promuovere un’esperienza emotiva, che permetta di risvegliare potenzialità presenti nell’individuo, nella coppia e nel sistema, rintracciabili nella sua storia e nell’esperienza differenziata di tutti i suoi membri.
Questo è soprattutto vero quando a chiedere aiuto specialistico è una donna.
Franz Alexander, pioniere della psicoanalisi, ha introdotto nel 1946 la necessità di promuovere un’ esperienza emotiva in terapia per correggere schemi disfunzionali derivanti da esperienze passate e per risvegliare potenzialità presenti (Leslie Greenberg e la Terapia Focalizzata sulle Emozioni) nell'individuo, nella coppia e nel sistema.
Questa esperienza condivisa (Carl Rogers), aiuta l’individuo, la coppia, la famiglia a riscrivere il copione della sua storia e dei suoi singoli membri e a dar vita a dei racconti personali.
Il metodo di lavoro è quindi basato sulla Re-narrazione dei copioni familiari (Latella, Venditti, Civitareale, 2022) per trasformare i copioni disfunzionali in storie evolutive, restituendo senso, autonomia e armonia.
“La terapia narrativa… è mirata a aiutare le persone a mettere in discussione gli assunti della storia personale e a riscriverla” (White, 1995).
Riscrivere la propria storia, riscrivere il proprio copione.
Da quella maledetta mela di biblica memoria, non c'è stata una donna che non abbia tentato con la lotta di riscrivere il proprio copione.
Un copione marcatamente maschilista, scritto da altri, imposto nei secoli da pensieri e desideri che non erano i suoi: padri, mariti, psichiatri, teologi, moralisti.
E persino Psicologi.
A partire da Sigmund Freud.
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Negli anni Settanta, alcuni autori coraggiosi hanno messo in discussione uno dei capisaldi più controversi del pensiero freudiano: l’idea che i racconti di abusi sessuali riportati dalle sue pazienti fossero prodotti della fantasia e non esperienze realmente vissute.
Tra questi, Florence Rush e Jeffrey Moussaieff Masson rappresentano le voci più lucide e dirompenti.
Nel suo testo pionieristico The Freudian Cover-Up (1971), Florence Rush denuncia il meccanismo attraverso cui la psicoanalisi avrebbe storicamente occultato la realtà della violenza sessuale subita da bambine e donne, reinterpretandola come desiderio inconscio o seduzione reciproca. Una lettura che ha avuto effetti devastanti sulla credibilità delle vittime e sulla strutturazione stessa della diagnosi clinica.
Ancor più incisivo è stato Jeffrey Moussaieff Masson, ex direttore degli Archivi Freud presso la Sigmund Freud Archives, il quale nel suo The Assault on Truth (1984) sostiene che Freud, inizialmente incline a credere ai resoconti di abuso dei suoi pazienti, avrebbe poi volontariamente rinunciato a questa linea interpretativa per preservare la rispettabilità della teoria e il consenso del mondo accademico.
Un atto che, secondo Masson, ha segnato l’origine di un’inconsapevole complicità culturale con l’abuso, dando forma a un modello teorico fondato sulla negazione del trauma.
Karen Horney, pur non affrontando direttamente il tema degli abusi, ha contribuito in modo determinante a smascherare il maschilismo e il patriarcato delle teorie freudiane sulla sessualità, restituendo dignità alla soggettività femminile e alla sua complessità. Il suo pensiero ha aperto la strada a una psicologia meno autoritaria e più attenta al vissuto concreto.
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Tutto ciò suggerisce che se Freud avesse avuto accesso agli strumenti diagnostici di oggi avrebbe potuto riconoscere che molti dei racconti clinici archiviati come “fantasie” erano in realtà segnali precoci di traumi reali, spesso taciuti, negati o non compresi.
Questa riflessione è tuttora cruciale. per l’etica di ogni clinico.
Infatti, Freud, con tutto il suo genio, ha anche lasciato in eredità una domanda che ancora oggi risuona ambigua: “Cosa vuole una donna?”
Una domanda che ha più volte trasceso l’indagine clinica, rivelando un limite culturale.
La psicoanalisi freudiana ha infatti spesso collocato la donna in una posizione definita per 'mancanza del pene', come soggetto “mancato”, marginale, subordinato all’ordine simbolico maschile.
Ma questa è solo una delle molte forme di espropriazione della soggettività femminile.
Per secoli, le donne sono state messe a tacere, psichiatrizzate, rinchiuse, bruciate, ridotte a isteriche.
Nel Medioevo erano le streghe da purificare; nell’Ottocento le pazienti da sedare nei manicomi; nel Novecento le casalinghe depresse da curare con elettroshock o barbiturici. E nel mondo contemporaneo uccise senza pietà.
Corpi controllati, desideri repressi, linguaggi zittiti.
Anche la medicina e la psicologia non sono state immuni da questo sistema di dominio simbolico e materiale.
Per questo oggi, quando una donna entra nella stanza di uno psicologo, non porta solo la sua storia personale.
Porta con sé secoli di silenzi, diagnosi imposte, interpretazioni riduttive.
E con esse, una possibilità rara e preziosa: quella di riscrivere finalmente, con le sue parole, il proprio racconto.
Riscrivere non significa solo elaborare un trauma.
Significa restituire voce, autorità e significato a ciò che è stato vissuto, e farlo in uno spazio che non ripeta la violenza dell’interpretazione unilaterale, ma accompagni con rispetto, rigore e ascolto profondo.
Ecco il cuore della mia pratica clinica.
Una psicologia che sa di storia, che riconosce le ferite della cultura, e che sceglie — consapevolmente — di non ripeterle.
Una clinica della narrazione, non del controllo. Una cura che non si impone, ma si offre come luogo di restituzione simbolica e trasformazione reale.
Nel mio lavoro psicologico, non considero mai la donna come un'entità isolata, ma come un essere interconnesso: con la sua storia, con le relazioni affettive che la definiscono, con i ruoli che ricopre, con le parole – dette o taciute – che l’hanno formata.
La donna che incontro in studio non è mai solo un “sintomo”, ma una trama viva, fatta di emozioni, memorie, identità che si intrecciano.
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Il mio approccio è ispirato a una visione sistemica-relazionale della psicologia: ogni disagio emotivo o difficoltà relazionale va compreso nel suo contesto – affettivo, familiare, culturale, generazionale – e rispettato nella sua profondità. Non si tratta di “aggiustare qualcosa”, ma di dare significato a ciò che accade, per poi accompagnare la persona verso nuove possibilità di comprensione e trasformazione.
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Il colloquio psicologico come spazio narrativo
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Nel dialogo che propongo non ci sono risposte preconfezionate.
C'è un ascolto attento, uno sguardo empatico e una cura profonda per ciò che emerge: le parole della paziente diventano materia viva, da accogliere e onorare. Ogni colloquio è un’occasione per riscrivere la propria storia, ridare senso ai passaggi critici, e generare un nuovo equilibrio interiore.
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Spesso la donna arriva in studio con domande non dette, ferite mai nominate, vissuti mai autorizzati. Io sono lì per camminare accanto a lei, con rispetto, chiarezza e verità. La relazione psicologica diventa così un luogo trasformativo: non una cura dall’alto, ma una co-costruzione in cui il cambiamento prende forma nella sicurezza di uno spazio protetto.
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A chi si rivolge il mio lavoro
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Il mio intervento psicologico si rivolge a donne, madri, figlie, compagne, lavoratrici, che stanno attraversando momenti di fragilità, confusione o sofferenza:
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nelle relazioni di coppia o familiari
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nei cambiamenti di vita, nella solitudine o nell’ambivalenza
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nei vissuti legati alla maternità o all'identità personale
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in situazioni di crisi emotiva, burnout, disorientamento esistenziale
Ogni donna porta con sé una storia, e tutte le storie meritano di essere ascoltate.
Credo in un modo di fare psicologia che non giudica, ma accoglie.
Che non corregge, ma accompagna.
Che non impone, ma svela.
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Se senti che è il momento di iniziare a dare voce alla tua storia,
Chiama per fissare il tuo appuntamento al
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3498182809
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dott. Daniele Russo
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